Bianchi, Chiara - Il canto della fortuna

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    Milano, fine Ottocento. Quando varca per la prima volta la soglia dell'orfanotrofio, Angelo Rizzoli ha otto anni, indossa un maglione più grande di un paio di misure e delle scarpe da adulto che lo fanno camminare come una papera. Il funzionario che lo registra all'ingresso scrive sulla scheda d'ammissione: ‘Una vita di stenti'. In quel piccolo mondo pieno di regole – e di punizioni – Angelo è felice: povero tra i poveri, impara che per fare strada bisogna compiere sacrifici, correre dei rischi e, soprattutto, credere in se stessi. Prende la licenza elementare e viene impiegato nella bottega di un orafo, ma quel lavoro non fa per lui, come non fa per lui stare sotto un padrone. Poi, quasi per caso, si propone a una tipografia. Inebriato dall'odore di inchiostro, stregato da tutti quei caratteri ordinati nei cassetti dei compositori, trova il suo mestiere. E diventa ogni giorno più bravo, ogni giorno più determinato. Qualche decennio dopo, Angelo è su un volo diretto a Los Angeles. Stringe tra le labbra una sigaretta finta. È il re delle riviste, dei libri, del cinema. Parla alla pari con il Presidente del Consiglio. È circondato da attrici e scrittori, da arrivisti e da nemici. Ha fatto di Ischia un piccolo paradiso. È il patriarca di una famiglia turbolenta, di cui tiene le fila grazie a sua moglie Anna. Il figlio Andrea è diventato il primo presidente di una squadra di calcio ad alzare la Coppa dei Campioni. I suoi nipoti sono gli eredi di un impero che sembra indistruttibile.
    (ibs)

    Unknown-17138854424826

    Avevo bisogno di un po’ di serenità, di pensieri positivi, di storie che magari cominciano male, ma che poi nelle ultime 10 pagine ci fanno godere con un lieto fine. E magari vorrei saperlo quando inizio una nuova lettura. Questa volta mi sono scelto questo libro con attenzione, dopo averne letto uno molto interessante, ma anche impegnativo, e avevo bisogno di tornare a pensare positivo. Sotto questo profilo la scelta di leggere la storia della nascita dell’impero Rizzoli si è rivelata giusta.

    Quanti nomi che ricordo come fosse ieri: dai giornalisti Montanelli, Biagi eccetera, ai giornali ed ai rotocalchi che giravano per casa mia, a cominciare da OGGI, con tutti i pettegolezzi e le teste coronate. Fino ad arrivare alla mitica BUR, la Biblioteca Universale Rizzoli, che mi ha iniziato alla lettura dei classici (quelli belli però, non pallosi, non necessariamente quelli che mi sono sciroppato a scuola). A me piaceva tanto leggerli, in più erano facili da gestire, li mettevo in tasca, piccolini, con la copertina morbida eccetera eccetera. I libri della BUR, gli autori sono stati con me per tanto tempo. Ricordo due tra questi, sperando di non fare gaffes. Innanzi tutto: “La metamorfosi” che mi aveva molto impressionato. E poi, sempre di Kafka, la stupenda, commuovente “Lettera al padre”, quella sì ricordo edita da BUR, che tanto mi aveva fatto riflettere sul mio rapporto con mio di padre.

    Ma veniamo a noi: Angelo, “Angiùlin” Rizzoli ne è il protagonista, è il fondatore dell’impero RIZZOLI.
    In testa ha il detto popolare lombardo / brianzolo: “La prima generazione crea; la seconda mantiene; la terza distrugge”: potrebbe sembrare troppo catastrofico, ma io l’ho sentito dire tante di quelle volte che non mi ha fatto alcuna sorpresa trovarlo in questo libro. Che è un pensiero, un tarlo fisso che spinge il “Commenda” ad atteggiamenti non sempre positivi nei confronti del figlio. E a questo punto uno potrebbe domandarsi: ma se nel futuro di un’impresa di un’iniziativa c’è la sua distruzione, crollo, caduta, per mano di discendenti incapaci, perché mai il fondatore continua a dare avanti imperterrito nonostante ormai abbia raggiunto una tranquillità economica personale e l’azienda una solidità più che sufficiente?
    È una bella domanda e non è facile trovare una risposta: il fondatore costruisce porta avanti non dorme si scalmana, trascura la famiglia, eccetera eccetera, per lasciare l’iniziativa a un figlio, ai figli, alla figlia, chi volete voi, che poi diciamo al massimo riusciranno a tenerla in piedi senza farla cadere, per poi lasciarla a loro volta ai loro figli debosciati, chiaramente laureati magari (perché no?) alla Bocconi, con master ad Harvard, in buona sostanza, come diciamo noi in Brianza: “nati con il culo nel burro”. Che però proprio perché non hanno sofferto per la sua costruzione, non ci sono dannati all’anima, non hanno perso le notti eccetera, anzi magari seguivano con fastidio gli impegni del padre o del nonno, questi discendenti - dicevamo - ci si accomoderanno sopra per poi lasciarla vivacchiare piano piano, e infine, se va bene la venderanno a dei marpioni molto più scafati. Qualche esempio anche ai giorni nostri.
    Perché parliamoci chiaro se i discendenti non sono l’altezza dei genitori o dei nonni ancorché plurilaureati, l’unica soluzione che avranno sarà quella di appollaiarsi nell’azienda, farne il padrone (millantando magari ambizioni di sinistra), e se la mangeranno piano piano. E ripeto questa è stato il destino di tante aziende di cui non faccio i nomi.
    Alcuni economisti, si sono spinti a teorizzare una sorta di ciclo vitale di una azienda, dividendolo in tre fasi:
    L’imprenditore fonda una nuova impresa e questa prospera e si sviluppa grazie all’innovazione che il fondatore ha portato sul mercato ed al sacro fuoco che lo sospinge (La prima generazione crea)
    I figli la portano avanti l’azienda, senza la fame del genitore e senza nessun guizzo d’ingegno particolare. Ma non la disperdono. (La seconda generazione mantiene)
    La terza generazione è quella a cui manca la visione innovatrice dal fondatore. E magari anche l’esempio, il confronto con il fondatore. Non hanno avuto nemmeno la ferrea educazione dei loro padri perché cresciuti, come dicevo prima, con il culo nel burro. Il declino è una certezza, più che un rischio: non riescono a reggere la concorrenza delle nuove aziende fondate da altri sognatori, creatori affamati, né più né meno come i loro nonni / padri (La terza generazione distrugge)

    E quindi l’Andrea, e fioeu dell’Angiùlin, si da da fare per trovare strade nuove e far crescere l’Azienda. Vuole dimostrare che vale qualcosa anche lui, che non è solo ‘il figlio del Commenda’. Quasi in competizione con il padre.
    Ma vuole anche lui una creatura per cui valga la pena soffrire. E ne trova una che mai ti saresti aspettato: il Milan. Quello delle figurine dei calciatori Nordhal, Sentimenti (figurina introvabilei), Buffon, eccetera!
    A poi il grande “Gipo” Viani che inventa il “catenaccio”, magari non bello da vedere, ma porta risultati: quello che conta è vincere.”

    Un altro principio del grande Padre, che anche io ho sentito mille volte nelle aziende in cui ho lavorato: le banche devono restare fuori. Ovvero non sfruttare i fidi bancari, lavorare con i propri soldi. La banca è quel socio che porta a casa sempre il suo utile, sia che l’Azienda guadagni, sia che l’Azienda perda. Oggi le banche guardano con sospetto le aziende che non utilizzano il fido bancario….

    E per concludere il cinema. Una sola citazione: La dolce vita che all’inizio abbe commenti abbastanza controversi. “Nell’attesa dell’auto, un signore in smoking si avvicina a Fellini e gli sputa addosso. Qualcuno urla: «Rizzoli comunista!», Angelo si volta per seguire la voce, ma c’è troppa ressa, impossibile individuare chi sia stato”
    A Pagine 236 ho trovato un refuso: “Angelo è provato dal viaggio e dal jet lag.” Il viaggio era verso l’America: ma il jet lag si soffre molto al ritorno, dall’America verso l’Europa. All’andata non lo si avverte, quasi per nulla. Beh: volevo fare il saputo, far vedere che davvero ho letto profondamente questo libro.
    E andando verso l’epilogo c’é l’Oscar…… “Poi Lemmon la affianca con in mano una busta: contiene il nome del vincitore. «And the winner is… Italy for Federico Fellini with Eight and half”. Il resto ve lo godete voi in pace, come ho fatto io.

    :lock:

    Edited by Itaca - 24/4/2024, 10:46
     
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